L’ultimo spettacolo prima di Pasqua, al ridotto del TCVI, per la rassegna collaterale “luoghi del contemporaneo – danza” ha visto protagonisti il celebre duo di teatro danza Abbondanza/Bertoni con la pièce del 2010 “Le fumatrici di pecore”. In Scena la danzatrice e coreografa Antonella Bertoni e Patrizia Birolo, una giovane ragazza non professionista, interprete, in tutti i sensi, “fuori dall’ordinario”. La pièce è intensissima, commovente, divertente e spiazzante. Il pubblico ha tributato lunghi minuti di meritatissimI applausi alle due performer. Nell’intervista che segue ho analizzato lo spettacolo e le modalità di lavoro della compagnia insieme ad Antonella Bertoni e a Michele Abbondanza ed è intervenuta Patrizia Birolo.

 

In questo spettacolo vediamo che all’inizio fate un’introduzione, per prendere confidenza con lo spazio. Questo è utile anche al pubblico, perché lo coinvolge direttamente, è come assistere a una sorta di workshop. Questa modalità di presentazione dello spettacolo può essere anche un modo per accompagnare lo spettatore verso il crescendo di emozioni che poi si vive guardandovi?

Antonella Bertoni: “Mah, questo non lo so, mi verrebbe quasi da chiederlo a te perché io sono dentro, il lavoro non l’ho mai visto e non ho idea di che percezione abbia il pubblico. L’inizio è stata  una trovata registica di Michele, secondo me geniale, per sfruttare le abilità di Patrizia e in qualche modo subito svelarla e svelare il gioco che c’è tra me e lei, che poi continua anche durante lo spettacolo.”

 

In scena vediamo due donne diversissime e i contenuti espressi sembrano essere solo un mezzo per raccontare l’essenza dell’essere umano: si parla di fatica e di collaborazione, ma quello che salta agli occhi è il modo in cui, appunto, due persone diametralmente opposte riescano a viversi  vicendevolmente.

A.B.: “Sì, esattamente questo: Patrizia l’altra sera, a Brescia,  nella parte improvvisata ha detto: “io e te siamo due gemelle”. Sono due universi al femminile che si incontrano, si relazionano.”

Michele Abbondanza: “Certo, non è il cosa ma è il come. il teatro è il come, poi il cosa, il contenuto: il teatro di disabilità, il teatro politico, la danza, è sempre il come, è il mezzo che poi  rende compatibile anche il fine. Noi lavoriamo molto sul mezzo che ci porta al fine, adesso stiamo per affrontare questo nuovo progetto che abbiamo cominciato a scrivere e che si chiama “Il nome della madre”, e ci siamo presi questo mese di lavoro, Antonella, io e la sua mamma ottantenne per vedere quale sarà la chimica; in scena vedremo una madre e una figlia e poi presenteremo questa cosa al festival di Bolzano, in anteprima, e sarà un’altra avventura.”

 

Vediamo come Patrizia, che in teoria dovrebbe rappresentare il personaggio più fragile, sia in realtà quella più forte perché con la sua semplicità e il suo essere diretta e spontanea, in qualche modo, sorregge Antonella, non solo fisicamente. Lei dice: “Antonella, ci penso io a te”. Nel dirlo in modo così convincente esprime un atto di coraggio enorme che nella quotidianità difficilmente incontriamo. È una finzione scenica scritta a priori ed espressa con consumata esperienza o è davvero frutto di una spontaneità che si è presentata durante la messa in opera e che poi avete integrato definitivamente?

A.B.: “Nasce sicuramente dall’intento di Michele e mio che è stato quello, nel momento in cui ci siamo guardati e ci siamo detti che dovevamo fare attenzione a non cadere in un lavoro in cui lei segue te e tu conduci il gioco: volevamo assolutamente ribaltare questa prospettiva che di fatto un po’ c’è, sotto, nel senso che sono io che tiro e che conduco, io dò i tempi e Patrizia mi segue.”

 

Si ma sembra proprio una cosa tipo workshop perché lei si esprime con una libertà assoluta.

A.B.: “Perché lei è così, non fa che essere vera, nella sua espressione: non esiste finzione, lei è vera sempre. Nella “prova italiana”, che significa che una volta che sono state montate le luci, la fonica  e tutto, si attraversa lo spettacolo, si cammina senza stancarsi troppo, perché poi lo si fa la sera, per trovare nuovi spazi perché il palcoscenico è diverso eccetera, lei quando fa , fa,  sempre  uguale, che ci sia il pubblico o no. Quando lei dice: “Antonella ci penso io a te” lei lo crede e lo fa veramente, quando mi tira su, è di una forza  incredibile.”

 

Ci crediamo anche noi che vediamo.

A.B.: “Esatto. Lì è stato molto bravo Michele: nell’intento che avevamo, dobbiamo essere due donne paritetiche; è riuscito, guidando il gioco, a tirar fuori questo aspetto di Patrizia. Il personaggio fragile sono io, si è rivelato anche nel periodo di  prove: io sono andata molto in crisi, mi si è ribaltato il mio piano di realtà e ne sono uscita io molto più fragile.”

 

Lo spettacolo non è assolutamente pietistico e tanto meno grottesco. È tutto così leggero  anche nei momenti drammatici che veramente  si riesce a vivere lo spettacolo con un coinvolgimento e un’emozione fortissimi. È possibile che questo sia dovuto alla presenza di Patrizia, che non essendo una ballerina di preparazione accademica, permette al pubblico di immedesimarsi maggiormente nel suo “personaggio”, sentendosi  rappresentato da lei, sul palco?

A.B.: “Io  credo che questo avvenga perché sono state messe in scena due donne nell’assoluta finzione scenica, perché tutto quello che accade sul palcoscenico è estrema finzione ma in una verità di reazione. Quindi, più che la preparazione più o meno accademica di Patrizia, io credo che questa  umanità e “non pietismo” che vengono fuori dal lavoro siano proprio perché ci sono due persone molto diverse in scena che si relazionano con un’ enorme verità. Di tutto quello che accade in scena, tantissime cose sono fissate, ma mai come negli altri spettacoli, io sono un’antenna che monitora in continuazione la relazione con Patrizia e questo, secondo me, il  pubblico lo sente.”

M.A.: “É possibile che questa ironia e questa relazione automatica leggera, sicuramente, siano date anche dal carattere di Patrizia: è lei che sdrammatizza con il suo modo. Avendolo intuito, abbiamo lavorato intorno alla sua possenza fisica e alla leggerezza comunicativa, perché lei quando parla  ha una capacità sdrammatizzante pazzesca. Poi non dimentichiamoci, facendo eco a quello che diceva Beckett, che non c’è niente di più comico dell’infelicità: una situazione che, appunto, invece di volgersi al pietistico può essere ribaltata ed essere estremamente leggera e comica. Per cui, ancora una volta, The Dark Side of the Moon: ci sono sempre i due lati; quindi l’intelligenza, anche se lo deve dire il pubblico, è stare su questo crinale: nello zen, che è una nostra grandissima fonte di ispirazione e disciplina, diciamo che la profondità dell’ombra dei pini dipende dalla lucentezza della luna. Tutto ha un doppio valore e le cose si compenetrano: il dolore e la felicità, la possenza con la leggerezza, queste cose forse nello spettacolo siamo riusciti a tenerle in bilico, per cui si ride, si piange, è un po’ il mistero che secondo me  tute le opere artistiche dovrebbero contenere per cui esci dal teatro con qualcosa che e ancora ti è sfuggito e che è quel qualcosa che rende l’opera molto vicina magari.  ”

 

Come dicevamo , in scena, vediamo due donne diversissime. Indossate un grembiule nero da lavoro.  Poi vi legate in testa due fazzoletti bianchi, pregate, vi aiutate, fate fatica trasportando gli oggetti, ballate divertendovi, cantate, c’è un’allegoria del parto, ma vi tendete anche dei tranelli. Sembra di vedere una rappresentazione universale della femminilità. A cosa vi siete ispirati e qual è il messaggio che volevate mandare in questo senso? 

A.B.: “Mah guarda, in realtà nessuno, nel senso che io volevo stare inscena con lei. In genere, nella composizione dei nostri lavori tediamo ad aprire delle questioni più che a voler trasmettere qualche cosa. Ci siamo ispirati ad accadimenti semplici tra due persone, che poi sono diventati anche estremamente paradossali, come quello di fumarsi la pecora. Non siamo partiti, come si  vede, da una storia, non c’è una storia che sottende al lavoro, alla quale lontanamente ci siamo appoggiati, ma solo lo stare in ascolto di Patrizia. Durante le prove avevamo delle immagini, lavoravamo su delle cose e poi lei reagiva in un certo modo. Questo ci ha portati a creare poi le scene che si  sono incastrate l’una nell’altra, come dici tu, con una rosa di comportamenti come l’essere molto unite, essere complici, farsi gli scherzetti, che era un po’ quello che volevamo mettere in scena.”

 

Il pubblico è rimasto profondamente emozionato, immagino che sia lo stesso anche nelle altre occasioni in cui lo proponete. Quali sono le emozioni che vivete voi mentre lo realizzate?

A.B.: “Il lavoro è per me molto forte, nonostante io abbia alle spalle tanti anni di palcoscenico, ogni volta che salgo sulla scena per fare uno spettacolo, subisco tutta una serie di trasformazioni interiori che hanno un peso notevole. In questo lavoro qui, devo dire che la cosa è abbastanza amplificata, perché con Patrizia, nonostante lei si bravissima e fortissima, c’è bisogno di essere sempre in ascolto, calibrare le reazioni e dare input senza sovrastarla.”

Patrizia Birolo: “Io provo molta emozione nel fare la danza ed essere davanti a un pubblico e io me la so cavare perché sono in gamba, lo so questo. Poi mi piace recitare e ballare con gli altri, con questi danzatori famosi.”

M.A.: “Pur avendolo creato con il fondamentale aiuto di Antonella e di Patrizia, io mi emoziono tutte le sere, e ogni volta è una cosa diversa: succede che mi emoziono anche in maniera imprevedibile in punti diversi, perché il lavoro nasce, rinasce e muore in modo diverso. È stato pensato lasciando questa libertà, che come tutte le libertà ogni tanto ti spiazza e ti fa cadere la maschera e scatta l’emozione. Io faccio parte del pubblico nello stesso modo, pur essendo stato un creatore, perché il gioco è proprio questo.”

 

Voi siete una delle più importanti compagnie di danza contemporanea e avete lavorato molto anche con Carolyn Carlson che è celebre per la sua espressività libera e la capacità di improvvisazione. Spesso si può pensare che la danza sia un linguaggio strettamente codificato. Secondo voi è importante che il pubblico riesca a cogliere la differenza tra ciò che nasce qui e ora e ciò che invece è preparato, grazie a una scrittura scenica predefinita? 

M.A.: “Secondo me sì perché sta alla base della creatività, dell’originalità e del rinnovarsi dell’arte: se io ho già un’immagine nel mio cervello, perché l’ho già vista, quando vado a vedere uno spettacolo, l’emozione si rapporta con il già visto. Se invece si riesce, come cerchiamo di fare, a lavorare sul non già visto, sull’originalità, su quello che non è cliché o stereotipato, ti poni davanti a una sfida sempre nuova; per ciò, come tutte le cose che non hai già e che non possiedi, all’inzio ti possono far paura, far sbandare ma poi ti apri a spazi emotivi, personali sentimentali nuovi. È un po’ il nostro percorso.” 

A.B.: “Una cosa non esclude l’altra, nel senso che noi facciamo una danza non codificata: il teatro danza ha proprio questa prerogativa, a differenza del classico, jazz o flamenco, di non appoggiarsi a dei passi che hanno un nome e che sono codificati. I movimenti sono tutti creati ad hoc a seconda di quello che si vuole raccontare. Nella preparazione dello spettacolo c’è un lavoro di cesellatura: io e Michele ci fermiamo molto sui dettagli e i nostri lavori sono sempre molto molto preparati. Questo non significa che il qui e ora non esista, perché nel momento di vita dello spettacolo, che è quello che si ha nel momento  in cui sali sul palcoscenico e ti metti  in relazione con chi è seduto in platea, gli interpreti hanno in mano tutto il lavoro di cesellatura e possono, non cadendo in una ripetizione ma in un elemento di vitalità estrema, essere, come dice la filosofia orientale “qui, ora e mai più”. Quel momento lì è irripetibile: anche se quello spettacolo lì lo rifai, preparato, cesellato eccetera, sarà comunque un’altra cosa perché il pubblico di fronte sarà un altro. È fondamentale la relazione: noi esistiamo perché c’è  una platea che ci guarda e questo non va assolutamente dimenticato o passato in secondo piano.”

Voi fate teatro danza e lavorate anche con le scuole. Come vivete e trasmettete il rapporto tra spazio scenico, movimento ed espressione vocale?

A.B.: “Facendolo! Il teatro e la danza sono forma, tempo e spazio, ci si ritorna sempre: avere un equilibrio tra forma, tempo e spazio è necessario. Per quanto riguarda la voce ogni tanto è necessaria, ogni tanto no, questo è un elemento che a seconda del lavoro che si mette in scena  viene fuori se è necessaria una cosa piuttosto che un’altra. La nostra trasmissione avviene attraverso l’opera che portiamo in scena, poi abbiamo tutto un aspetto pedagogico formativo attraverso il quale effettuiamo la trasmissione della nostra esperienza, ma con il pubblico e con le scuole che vedono il nostro spettacolo la mattina, la nostra trasmissione avviene attraverso l’opera.”

 

 

info: http://www.abbondanzabertoni.it/index.html

trailer dello spettacolo

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