Con un po’ di ritardo pubblico questa intervista su un lavoro molto interessate e secondo me bello, andato in scena qualche settimana fa al TCVI, Teatro Comunale di Vicenza, come spettacolo di chiusura del cartellone collaterale della stagione di danza, “Luoghi del contemporaneo-danza”. Loro si chiamano Gruppo Nanou, sono di Ravenna, lo spettacolo che hanno proposto si chiama “Progetto Motel”, una trilogia che si esprime in 3 atti ai quali viene attribuito una vera e propria fisicità denomina doli non atti o episodi ma proprio “stanze”. Il lavoro è stato organizzato in modo veramente insolito per il nostro teatro: allestito sul grande palco della sala principale, lo spazio visivo è stato chiuso sul retro, creando un fondo palco verso la platea e verso il retropalco vero e proprio è stata allestita la stazione di regia e tre file di poltrone per circa 90 spettatori. Tra la scena e gli spettatori è stato inoltre allestito un boccascena temporaneo, bassissimo, in modo da ridurre in altezza il “quadro scenico” dal punto di vista degli spettatori.
Noi vediamo 3 quadri, 3 scene, come è la genesi dello spettacolo?
Rhuena Bracci: “È nata volendo essere una trilogia con tappe annuali: nel dicembre 2008 abbiamo debuttato con la prima stanza, nel 2010 seconda stanza e nel 2011 terza stanza, e sono effettivamente nate nell’ordine in cui vengono fruite.”
Ogni quadro ha un nome?
R.B.: “Inizialmente la prima stanza oltre a motel richiamava faccende personali poi questa cosa si è persa per strada ed è diventata la trilogia di motel.”
L’estetica è un po’ David Lynch, con questi rumori, queste forme strane, l’uomo col cappello… Chi è l’uomo col cappello?
Marco Valerio Amico: “L’uomo col cappello è una visione e preferirei non dare la soluzione perché penso che sia soggettiva; è l’unico vero personaggio presente in tutti e tre gli atti, i 3 quadri, è un conduttore narrativo, poi il dove esattamente conduce penso che sia per ognuno molto personale e preferire che rimanesse così. C’è un grande riferimento al cinema in generale, al montaggio, alla composizione cinematografica, per cui i suoni e la musica hanno tutto un altro lavorio rispetto alla scena per cui non sono dei comprimari ma sono dei protagonisti tanto quanto gli attori, i danzatori eccetera, la stessa cosa per le luci che sono fondamentali nel dialogo.”
Come mai avete scelto queste luci? Soprattutto nella prima stanza si fa fatica a vedervi.
M.V.A.: “Noi cercavamo questa identità di film muto, di pellicola sgranata, invecchiata, rovinata per cui una leggera fatica proprio per porre una distanza di tanto tempo fa.”
Però poi avete voluto il pubblico sul palco, qui abbiamo la sala del ridotto, perché non farla lì?
M.V.A.: “Perché tecnicamente nel ridotto non ci sarebbe stato: è un o spettacolo che è abbastanza complesso dal punto di vista del montaggio tecnico.”
R.B.: “C’è questa particolarità del palco rialzato, che per noi mette eccessiva distanza. Il poter essere all’internodi questa fruizione per noi è molto importante, forse anche per come sono nate le tre stanze: abbiamo lavorato nella costruzione di tre pezzi con i palchi a terra e gradinate e ci siamo trovati prevalentemente in queste situazioni per cui col palco rialzato alcune cose si sarebbero potute perdere.”
Perché “Motel”? che visione avete di questo?
R.B.: “Per noi doveva essere un luogo di passaggio ed effettivamente siamo sempre noi come personaggi: anche nell’ idea del cambio d’abito c’è la volontà di dare più coppie e più personaggi, proprio un continuo fluire, all’interno di queste stanze, di storie, di avvenimenti, di persone.”
M.V.A.: “Ci piaceva questa dimensione del motel, ha degli elementi scenografici che sono della casa: un divano, può esistere una cucina, degli elementi che fanno parte di una quotidianità ma che sono disabitati, non sono vissuti da una famiglia che mette la fotografia attaccata la frigorifero, quindi sono dei segni in cui ciascuno può trovare qualcosa di suo ma al tempo stesso sono spogliati e spersonalizzati.”
Poi c’è tutta questa scena che è continua: questi movimenti che voi fate sono circolari, tornano sempre su loro stessi, sia che siano movimenti particolarmente dinamici sia che in “isometria”, quando tu sei dentro al cubo oppure quando scivolate. Perché questa circolarità continua quasi ossessiva?
R.B.: “Corto circuito narrativo, sempre. C’è veramente, da parte nostra, la volontà di non dare la soluzione di nessuno dei tre quadri né dei 3 quadri completi. È nato assolutamente con un filo narrativo: la seconda stanza in particolar modo è nata come storyboard, per cui tutto disegnato, tutto scritto; c’è il racconto, c’è un accaduto e sfruttando l’idea del montaggio cinematografico abbiamo scelto di smembrare questa cosa perché effettivamente il fulcro non è raccontare una storia per noi, non quella storia. Noi una storia l’abbiamo raccontata, poi sta allo spettatore rimette insieme i pezzi.”
M.V.A.: “il tentativo è quello di aprire una porta sempre in un momento sbagliato, quindi essere sempre un intruso, guardare una situazione o un’azione tra due persone di cui tu non conosci il pre e il post, come se fossero tantissimi quadri o fotografie una dietro l’altra.”
Come se tu ti trovassi in un aeroporto, vedi della gente, non sai chi è però te la trovi davanti.
M.V.A.: “Esatto: apri una porta di un motel, c’è un litigio in atto poi richiudi la porta.”
C’è anche l’assassinio: uno nascosto dietro un divano che percuote qualcuno o qualcosa. Visto che è estremamente cinematografico, anche se l’estetica è quella di David Lynch, guardando uno potrebbe pensare che si poteva fare qualcosa di più esplicito e metterci la doccia.
R.B.: “A me viene in mente Psycho.”
Appunto quello.
R.B.: “Però è Hitchcock. È un filone volendo anche più vecchio effettivamente, noi partivamo dal bianco e nero anni ‘20. Ci sono spunti anche fotografici, Lynch è veramente una puntina molto piccola di tutto il lavoro di ricerca anche fotografico.”
M.V.A.: “Anche pittorico: Hopper tantissimo, soprattutto per la prima stanza, e per la seconda tantissimo è stato utile il fotografo Crewdson, lui allestisce dei set cinematografici e fa uno scatto; ha queste luci che sono incredibili, sempre angolate, c’è l’illuminazione di una casa e poi c’è una luce che non si capisce da dove arrivi che illumina qualcosa altro.”
Nel momento in cui tu retroillumini un oggetto o una persona, per quanto non si capisca effettivamente voi dove vogliate andare dal punto di vista della narrazione convenzionale, da quello visivo ha senso perhcè crea qualcosa: il classico esempio in cui si dice che non c’è niente da capire perché è tutto talmente lì davanti, tutto molto semplice,pur essendo completissimo perché si vede che c’è un lavoro dietro, però dal punto di vista visivo è molto diretto.
R.B.: “Non c’è stata la volontà del “famolostrano”, partiamo già dello smembrato, la volontà è stata più complessa, effettivamente: quando Marco ha presentato lo storyboard lo abbiamo subito distrutto, è esploso come se ci avessimo messo un bombetta sopra, perché quello era un lavoro che era stato fatto di studio, lettura,ricerca e via dicendo. Quello che è invece portare il lavoro di studio in sala prove è una cosa veramente che friziona, che stride ed è stato molto difficile ma alla fine ci siamo resi conto, dopo giorni di prove, che lo storyboard tornava da sé, per cui si tornava veramente in un cerchio e in questo modo avevamo di base un’informazione che ci permetteva di capire cosa fosse inutile e superfluo e cosa eliminare. Abbiamo provato tanti tessuti, tanti vestiti.”
Quindi un lavoro di estetica a cui viene dato un significato simbolico, siete partiti dall’estetica.
R.B.: “Dall’estetica e dal rendere azione un ‘immagine, come uno spunto fotografico, rendere storia quello che io posso vedere da uno scatto fotografico.”
M.V.A.: “Non assumere solo una posa ma il lavoro grosso è stato come passare da un punto all’altro, che cosa c’è, che tipo di relazione.”
Facendo una domanda banalissima: che rapporto c’è tra questa donna e questo uomo che vediamo in scena? Volete rappresentare una coppia?
R.B.: “Coppia direi di sì, LA coppia, in senso ampio.”
Ci sono delle dinamiche che volete sottintendere?
M.V.A.: “Sicuramente una relazione: abbiamo lavorato su un’idea di relazione tra corpi, tra oggetti, tra suono, luce , corpo in dinamica e corpo statico ed è una relazione che si smembra in una visione, e questo per me è molto importante. Nell’ultimo atto tutti i corpi sono lasciati da soli, c’è questa situazione di abbandono, solitudine e frazionamento ulteriore.”
questa situazione così claustrofobica: è vero che voi vi ispirate a cinema e fotografia, i quadri, quindi delle limitazioni spaziali molto ampie, eppure voi concentrate tutto in una porzione di quadro visivo ristrettissimo, perché avete abbassato le quinte creando un soffitto di un metro e mezzo non di più, lei chiusa dentro una scatoletta-cubo e poi anche tra di voi, soprattutto nel primo quadro, c’è una situazione che implode perché dentro a questo tavolo-altare vi tirate dentro il tappeto, la sedia…
R.B.: “Per me la volontà è quella di rendere lo zoom cinematografico, quando la telecamera ti porta all’interno della scena o molto molto vicino. Noi non lo possiamo fare se non attrarre, risucchiare implodere…”
M.V.A.: “Poi partiamo anche dall’immagine de “La finestra sul cortile”, all’inizio, nei titoli di testa, il fotografo vede tutto quello che succede nelle case degli altri. Ed è uno spiare.”
lui però vede delle situazioni molto diversificate, qua vediamo lui e lei… ripensandoci James Stewart vede tanti “lui e lei” perché vede il marito con la moglie, la signora anziana col cagnolino, la ballerina col fidanzato ch va e viene, ci sono tante forme di coppi effettivamente. Forse magari è un’ispirazione non voluta: avete fatto questo tipo di ragionamento, cioè James Stewart vede tante forme di coppie?
M.V.A.: “all’inizio, uno degli spunti era proprio la scena iniziale, poi sono quelle cose che metti sul tavolo, le cancelli e le ritrovi dopo 3 anni.”
A vederlo è angosciante, scuro, lei dentro la scatola, poi c’è anche il gioco del fuori-scena alla Woody Allen e alla Hitchcock, in cui ciò che è fuori scena è più i portante di ciò che è in scena: abbiamo un divano che impalla lui e pensiamo che la stia uccidendo e poi percuote una coperta! Qual è la vostra aspettativa nei confronti del pubblico?
R.B.: “Noi tentiamo di essere ironici e ci sono alcune cose che poi virano nel grottesco: all’estero c’è capitato che il pubblico scoppiasse a ridere, per noi è stato piacevole perché erano scene che volevano essere ironiche anche se non per far scoppiare a ridere le persone…”
Dove lo avete portato?
M.V.A.: “Bruxelles e Potsdam, vicino a Berlino.
In Nord Europa spesso ridono per delle cose che a noi lasciano più che altro sorpresi.
M.V.A.: “Sicuramente non cerchiamo l’ammiccamento o la risata sguaiata però ci sono degli aspetti che per noi sono leggeri, in una situazione in cui comunque si vuole creare un’attrazione, un erotismo rispetto allo spettatore, erotismo nel senso che ti presentiamo qualcosa, cerchiamo di rapirti e portartici dentro il più possibile.”
Lo spettacolo attrae: il fatto che voi creiate delle dinamiche proprio visive: c’è lo spazio, le luci, i suoni, questi rumori così forti e luci bassissime, avete questa contrapposizione molto netta tra buio, inteso anche come buio sonoro, il rumore di fondo sottile, poi i colpi.
M.V:A.: “Sicuramente il buio per me è importante perché lascia immaginare, il sottrarre una parte di visione, il fatto che i volti si tengano sempre celati, perché ci sono i capelli davanti o la luce tagliata, perché ho come l’impressione che se guardo una persona senza volto è un uomo ma non è quell’uomo: è un piccolo varco di accesso anche per chi guarda nel dire: non è esattamente quella persona per cuci potrei essere forse anche un po’ io.”
Stare in scena vuol dire avere un faro puntato: in scena mettiamo in luce, anche se ci sono i momenti di buio scenico per cui ha senso il buio.
R.B.: in “Caccia al ladro” c’è una scena (soprattutto nella seconda stanza), in cui lei è illuminata dal volto in giù e si vede questo collier di brillanti illuminato in modo smaccato. Lì non è il volto, non è il soggetto, quella persona: questa fu netta come immagine, come spunto per noi.”
Sembra che per voi i motel siano quelli di Norman Bates!
M.V.A: “Non lo so, sicuramente questa coppia ha qualcosa da nascondere, anche nella prima stanza questo interno borghese dove comunque ci sono delle scene in cui l’attrito non viene espresso con veemenza fisica ma c’è continuamente una tensione tra loro due. Sono diverse modalità di sgomitare! Abbiamo fatto 3 spettacoli prima di questa trilogia e adesso stiamo progettando un nuovo percorso, iniziato quest’anno, sul ballo da sala.”
trailer dello spettacolo
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