Lo scorso week end, al Comunale di Vicenza, è andato in scena un classico rivisitato: “il fu Mattia Pascal” di Pirandello, nella versione di Tato Russo. Uno spettacolo pieno di raffinatezze e di sensibilità nei confronti sia del testo che dei personaggi:  maschere o fantasmi si alternano sul palco e forse, più che in altre occasioni, qui si riesce a rappresentare la dimensione di una sorta di aldilà strettamente legato all’inconscio, ai ricordi, a tutto ciò che è volatile e aleatorio, come un raggio di luce che perfora il buio intorno. Proprio questo contrasto importante tra luce e buio, per un disguido tecnico, non è riuscito  a essere messo in scena come previsto, lasciando alcune zone del palco non completamente oscurate, in una sorta di penombra che ha permesso di scorgere i movimenti degli attori che, in realtà, non si sarebbero dovuti vedere, creando però, all’occhio del pubblico, un effetto  ancora più misterioso e simbolico di confluenza  tra i personaggi. Le maschere, le luci e le ombre, gli oggetti che compaiono e scompaiono: è tutto un gioco di sdoppiamento e di antitesi, di simboli e di specchi che non solo riflettono quando vengono utilizzati, ma che lasciano lo spettatore in attesa di capire cosa ci accomuna non solo con la vicenda narrata ma soprattutto con i simboli, i segni, l’utilizzo stesso della voce messi in scena da Tato Russo. Una pièce affascinante, non solo per via del celebre testo, ma soprattutto  per lo spirito che impregna tutto lo spettacolo, dal punto di vista non solo visivo. Ho incontrato Tato Russo, che  firma la regia, la riduzione dal romanzo, le luci e che interpreta il doppio ruolo di Mattia Pascal- Adriano Meis.

 

 

L’inizio della pièce si focalizza sul fatto che i personaggi della storia siano come dei fantasmi che lei esprime con le maschere. Il significato legato alla maschera, inteso anche simbolicamente, è molto importante in Pirandello. Come succede che l’intreccio della vicenda riesce a essere così intricato e saldo, sebbene i personaggi siano così mutevoli da sembrare sfuggenti?

 

“C’è un passaggio continuo dal realismo al surrealismo, lo spettacolo cammina proprio in questo modo: la surrealtà è un dato deforme della realtà, ma non è che il surreale è tutto surreale, è una realtà che si deforma con un suo aggettivo primario e quindi è quello che dà il senso della surrealtà. Questo continuo passaggio in questo viaggio della memoria di questo personaggio, fatto di presenze e di fantasmi che si concretizzano, che vengono alla luce riportati da lui, dal racconto, vengono rimossi dalla sua coscienza. È  un percorso anche all’interno del teatro e della poetica di Pirandello. Il romanzo è giovanile, pieno di contraddizioni, non ha un percorso compiuto proprio, non aveva portato a compimento le sue fantasie e dottrine ideologiche e vedendolo dal dopo, le ho potute travasare tutte dentro. Quindi c’è il teatro metafisico, il teatro del mito, delle maschere, il teatro siciliano, quello naturalistico, il teatro del triangolo borghese; c i sono tutte le problematiche che nel romanzo sono in fieri e che dopo lui ha sviluppato in tutte le direzioni.”

 

Sulla scena lei crea una sorta di staffetta di personaggi in modo da non rimanere mai veramente da solo…

“Loro non escono e ed entrano: compaiono e scompaiono. Alcune volte sono usciti perché non siamo mai riusciti ad avere il buio completo. Anche gli oggetti compaiono e scompaiono.”

 

La cosa che mi ha colpita è che c’è una staffetta, anche quando rimane solo, lei non lo è mai veramente perché c’è la voce narrante, per cui un po’ è come se il personaggio fosse con l’altro personaggio. È una scelta estetica  che però coinvolge anche il linguaggio inteso come segno teatrale. Che valore narrativo dà a questa scelta?

“È molto tortuosa questa cosa! Non è tortuoso, è tutto così semplice! Siete voi che vedete le cose difficili, per me è tutto molto lineare. È il segno del mio modo di fare teatro.”

 

A me è piaciuta molto questa cosa dei personaggi che defluiscono un po’ l’uno nell’altro…

“È venuta così!  Sai che c’è, è che nel momento della creazione, in chi crea, c’è uno spirito che lo comanda, ha un suo bagaglio, filtra tutto dalla sua poetica, dal suo modo di intendere le cose quando vengono in un mondo anziché in un altro, per cui vengono naturaliter. L’idea è centrale. L’idea iniziale era quella di fare un viaggio nella memoria per cui fantasmi, apparizioni, disapparizioni, evocazioni; poi questo modo di fluire l’uno nell’altro è venuto di conseguenza, perché è una vita che si racconta. È anche la mia vita, all’interno di quella  di Pascal: se dico “mammina” invece che “mamma”, in quel momento, è  per mia madre. C’è un po’ di me ma deve esserci, è questo, l’atto creativo che ti deve appartenere. Io ho preso il romanzo, il primo Pirandello che faccio e faccio il romanzo, perché nel romanzo posso entrarci io, con la mia poetica. A me del teatro delle corna borghesi di Pirandello non me ne frega niente, a me piace il teatro del mito, dei giganti, de “La nuova colonia”. Il blocco che l’ha reso famoso è quello piccolo borghese che a me non interessa. Io amo il teatro epico, allora solo in quanto questo romanzo poteva diventare epico, come teatro, allora mi ha interessato.”

 

Vediamo una dinamica famigliare, una società piccolo borghese. Pirandello era amico di Eduardo….

“Eduardo fece una riduzione da Pirandello, “L’abito nuovo” si chiama, non riuscita. È difficile fare le riduzioni dai romanzi, io ci sono abituato da quando ero ragazzo, quindi mi viene facile. Io ho ridotto il musical “I promessi sposi”, “Il ritratto di Dorian Gray”,  Dostoevskij, ne ho ridotti tanti. C’è un problema di fondo, io prima scrivevo, avevo fatto una compagnia che si chiamava Nuova Commedia ma non veniva nessuno quindi a quel punto ho dovuto rifare gli altri, i classici, Shakespeare,  e riscriverli, ma solo nella riscrittura del testo è venuta fuori la regia. La cosa fondamentale è l’attore e lo scrittore, il regista è un tramite. Se è un poeta anche lui… ma non credo al regista che è solo un regista, quello è un organizzatore. “

 

Ma le musiche di questa pièce le ha scritte lei?

“No no, Vlad. Le luci sono di Roger La Fontaine, che sarei io!”

 

Pirandello, dicevamo, era amico di Eduardo, che pure trattava di dinamiche familiari e di gente soprattutto del popolo. Quali sono le principali differenze e analogie tra il teatro di Eduardo e quello di Pirandello?

“Diciamo che Eduardo, ad un certo punto, rincorre il successo di Pirandello e modifica anche la sua drammaturgia sull’onda del teatro grottesco di Pirandello,  e che era anche quello di Chiarelli in quel periodo ma di cui Pirandello è un caposaldo. Era un periodo in cui anche in Francia si scriveva il grottesco. Eduardo lo assume perché è di moda in quel momento, ma la sua grandezza è l’Eduardo realistico, non riesce a scrivere il grottesco, ha un’altra carne alle spalle. Anche Pirandello: la sua lingua è un siciliano tradotto. Io ho ridotto Giordano Bruno dall’italiano in napoletano del ‘600, l’ho riscritto perché lui aveva tradotto il napoletano in italiano e se leggi l’italiano, non capisci che cosa vuol dire. Se tu lo riporti al ‘600 napoletano capisci cos’è “Il candelaio”. Quando si parla delle radici, le radici si trasfigurano ad un certo punto ma te le porti sempre dentro, ma la vera carne sta là e la vera carne di Pirandello sta nella Sicilia.”

 

 In Pirandello spesso troviamo uno stretto rapporto tra follia e verità, generalmente espresso con sottile ironia: il pazzo dice la verità, la gente lo isola per entrambi i motivi, e lui stesso si isola, come se la verità fosse pericolosa quanto un gesto di follia. Ne “Il fu Mattia Pascal” come si esprime questo paradosso filosofico?

 

“Qua non c’è, qua siamo più nel relativismo. Oggi va di moda la “quantica”, per cui tu esisti solo in quanto io ti ascolto e se io non ti ascoltassi tu non esisteresti. Lui l’ha scoperta, in un certo senso: noi esistiamo solo in relazione agli altri, che ci vedono quando noi ci rappresentiamo agli altri. Questa relatività è il fondamento del teatro di Pirandello: noi esistiamo in relazione agli atri, come uno, nessuno o centomila nei confronti di uno, nessuno o centomila, cioè siamo uno nei confronti di un altro, un altro e di un altro ancora; c’è più questo in Pirandello più che la follia, quella più in “Enrco IV”… Quello vorrei fare …ma lo fanno sempre… C’è un problema di ripetitività, tutti fanno tutto… Oggi forse c’è gran buio e gran confusione, tutti  i nostri lanternini spenti, a chi rivolgersi?

 

prossime date

dal 23 al 26 febbraio:  Teatro Nuovo  di Verona

il 19 e 20 marzo, Cilea Comunale, Reggio Calabria

dal 29 marzo al 1 aprile, al Verdi di Salerno

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