Prosegue la stagione di prosa del teatro di Schio con il racconto in musica “Lo show dei tuoi sogni”, portato in scena dallo scrittore Tiziano Scarpa e da Davide Arneodo e Luca Bergia dei Marlene Kuntz.
Venerdì 16 dicembre, il Teatro Astra di Schio ha ospitato una pièce insolita per chi è abituato al teatro di narrazione tradizionale. La storia raccontata è quella di due personaggi normalissimi che si avvicendano nel rincorrersi degli eventi. Lo scrittore Tiziano Scarpa dà corpo ai due protagonisti portando in scena pensieri, sogni, accadimenti vissuti da due persone comunissime che si trovano a dover far fronte ad eventi casuali, tragici e surreali. In questa pièce si parla del meccanismo del successo, del desiderio di ottenerlo, dell’utilizzo degli strumenti che abbiamo a disposizione, nell’illusione che Facebook, Twitter, la carta stampata, siano mezzi democratici quando, in realtà, il vero dominio, forse, lo può dare ancora solo la televisione mainstream. Ed è qui che parte il deliro collettivo, di un uomo che ha una trovata banalissima che lo porta ad esercitare un potere assoluto su chiunque, compresi quelli che fanno parte di quel mondo apparentemente inaccessibile e meraviglioso che vediamo da casa in tv. Tutti si rivolgono a lui, diventa la guida spirituale del Paese. La pièce però parla del meccanismo televisivo senza sfruttarne il linguaggio, lo analizza in modo asettico e approfondito, senza criticarlo. L’Unico richiamo fisico all’illusione televisiva sono i fari rossi, verdi e blu, i tre colori del sistema tv col tubo catodico. La sottigliezza di questo spettacolo sta nel creare un flusso di sensazioni nello spettatore tramite un concatenarsi di eventi, di personaggi, di suoni: si parte dalla vita banalissima e solitaria di Fabrizio e si arriva al successo travolgente di Gaudenzio, assolutamente per caso. Se ci pensiamo è proprio così che ci vengono imposti molti personaggi televisivi: una moltitudine di persone che sono presenti in quanto figuranti che, all’interno del sistema, sono vittime ma al tempo stesso sfruttatori. Un gioco delle parti che rimbalza di continuo, si ripete, quasi come i loop sonori creati dai Marlene Kuntz con Tiziano Scarpa. La regia è di Fabrizio Arcuri della compagnia Accademia degli Artefatti. Lo spettacolo, in Veneto, è promosso da Arteven.
I brani musicali nascono come descrizione dei pensieri dei pensieri del protagonista, quand’è che diventano pensieri degli altri?
Davide Arneodo: “ I pezzi non nascono sempre come descrizione dei pensieri, lo spettacolo è nato in concatenazione. Non è un commento sonoro del racconto, ma è stato un crescere insieme delle due parti che sono diventate un tutt’uno. Ci sono dei momenti in cui la musica può sembrare in contrasto con ciò che sta accadendo. Non siamo arrivati a un punto in cui dicevamo che quella era la musica che scrivevamo per. Essendo un tutt’uno, è una cosa che si sviluppa tra musica e pensiero.”
Luca Bergia: “A livello musicale non è che puoi pianificare delle emozioni: noi abbiamo cercato di individuare delle atmosfere che dessero una connotazione emotiva di un certo tipo. Con l’aiuto di Fabrizio Arcuri e la sensibilità di Tiziano abbiamo aggiustato il “tiro” alle nostre improvvisazioni e abbiamo seguito lo svolgimento drammaturgico del testo. Partendo in modo quasi improvvisato e sottotono, abbiamo realizzato questa stratificazione musicale che prende sempre più il sopravvento, fino ad accompagnare la narrazione ad un delirio onirico psichedelico.”
Era prevista la parte con i filmati che per problemi tecnici non è stata utilizzata.
Tiziano Scarpa: “Non è vero che era prevista una parte visiva, è una cosa che mi invento io certe sere. È un pretesto per dire che qui c’erano delle immagini e dovete immaginarle voi, in altre versioni dicevo di fare degli esercizi di immaginazione (immaginate una città) ma era un po’ inerte, invece così è molto più diretto.”
Che significato hanno i loop musicali?
L.B.: “Il loop ci serve perché è una semplificazione tecnica per poter, in due, stratificare la musica e suonare più strumenti e più patterns: le loop station campionano dei loop e li rimandano.”
D.A.: “Siamo in due ma sembra che siamo di più, io suono una parte e la looppo, ci suono sopra e la rilooppo, lui fa la stessa cosa.”
A me ha colpito che nei momenti in cui si parla di morte ci sono dei loop precisi oppure anche assenza di suono.
L.B.: “Certo, quella è anche la regia di Fabrizio Arcuri che ci ha aiutati a individuare i momenti, a togliere e aggiungere suoni.”
La parola fa arrivare allo spettatore delle scene, degli stati d’animo, dei concetti, è quella che esprime meglio; la musica è un po’più difficile. La musica che viene considerata triste, allegra, ironica, drammatica, sexy eccetera, viene vissuta attraverso dei filtri e dei condizionamenti culturali o ci sono delle caratteristiche tecniche che determinano il carattere di una composizione?
L.B.: “Ci sono delle caratteristiche ontologiche e umane che sono molto banali: gli accordi maggiori ti portano allegria, i minori tristezza. Da lì parti e ti crei un tuo mondo emotivo. L e sfumature, la musica non te le può dare, te le dà la parola, perché altrimenti non capisci cosa sta dicendo una persona.”
Il protagonista è un uomo qualsiasi, con una vita molto mediocre. Paradossalmente chi è come lui vorrebbe fuggire dalla realtà ma sogna di essere come lui, questo personaggio è nato da solo, osservando la realtà?
T.S.: “A me viene da pensare che assomiglia un po’a me e a loro: chiunque faccia qualcosa di artistico spera di fare qualcosa che resti nella memoria, che sussista e che consista. Più che la società, mi colpiva l’idea di manutenzione delle cose. Si può anche trascorrere la vita facendo manutenzione, stando mediamente in salute, contribuendo mediamente a far nascere qualcuno a trattarlo bene, ma alle volte questo ti può dare l’idea di qualcosa che scorre che passa e che non ti lascia qualcosa di importante, ed è una malinconia che credo prenda molte persone. Non significa che le vite sono infelici se non creano dei monumenti, siano essi una canzoncina che magari piglia anche una cosa molto pop che la gente canta, chiamo monumenti anche queste cose qui. Per me nasceva anche da questo.”
Quest’uomo è assolutamente solo, al punto che non gli bastano i blog, Facebook, Twitter: li trova aleatori, preferisce i settimanali cartacei, pubblicando annunci assurdi. Vuole lasciare il segno. L’ansia di lasciare qualcosa di riconoscibile è tipico di chi vive una condizione lavorativa e culturale misera, oppure è una tendenza naturale all’ambizione?
T.S.: “Oggi c’è una tale offerta anche di hobby, di passioni, rispetto forse a un tempo: Fabrizio è uno che si improvvisa un po’, è una specie di poetastro da due lire che infila un po’ di frasette in giro per il mondo, però in quest’epoca è molto facile.”
Tu sei creatore di personaggi, qui invece dai vita a un tuo scritto, questo personaggio che esigenze presenta a chi lo deve interpretare?
T.S.: “Io in realtà ne faccio tre, in questa lettura, perché all’inizio faccio Tiziano Scarpa che arriva sul palco e dice al pubblico cosa lo aspetterà, di che si tratta, fa finta di dover parlare per una necessità scenica e tecnica perché non è ancora pronto, il pubblico è già seduto. Poi, piano piano, scivolo dentro a un narratore da teatro di narrazione, dove sono lì, non si capisce bene chi sono, e racconto la storia di uno assente che si chiama Fabrizio, poi mi trasformo nel protagonista: è un colpo di scena formale non narrativo, cioè il narratore che era lì sembrava raccontare la storia di qualcun altro ma era lui il protagonista. Questo è, uno sprofondamento progressivo. Più che difficoltà, devi entrare sempre più dentro. All’inizio sei uno che fa due chiacchiere col pubblico, che racconta con ordine una storia, poi quella storia è la mia, non di Tiziano Scarpa ma di un personaggio finto e inventato ma che dice “io”.”
Nella realtà, il sogno di molti è diventare famosi e potenti con un’idea nata per caso. Sparisce il concetto che fatica, esercizio, ricerca, premino col successo? La pièce non è che critica, racconta il meccanismo.
T.S.: “Sì, un meccanismo di passività: anche quando fai un gesto attivo, in realtà è perché ti scelgono, ti cercano. Questo secondo me è molto contemporaneo, dove il gesto attivo è raro. Il primo dei due personaggi, Fabrizio, cerca di fare qualcosina di suo, anche se non lo sa fare, è un improvvisatore. Il secondo, che è Gaudenzio, ha una trovata un po’ per caso, senza fatica, ha successo perché lo chiamano, lo cercano, gli offrono contratti di lavoro, gli danno un trasmissione sempre più importante. Secondo me è proprio in generale, questo schema è l’emblema ed è tipicissimo della situazione attuale: cosa significa successo? Non: desiderare, amare, fare, vedere, guardare, prendere, scegliere, ma essere amati, essere desiderati, essere scelti, essere comprati, essere visti. Tu immagina: fai un buon lavoro, una bella opera, di qualsiasi genere, un articolo, una trasmissione, un quadro, un progetto architettonico, di qualunque livello qualità, forma o stile eccetera. Tu puoi avere una soddisfazione e chiamare successo il fatto che ne sei fiero e lo hai realizzato bene. Di tutt’altro tipo è invece il successo come lo intendiamo comunemente: quella è un’opera così così, però è stata molto comprata, vista, letta, acquistata, i miei clienti me la chiedono tutti uguale, mai avrei pensato che avrebbe avuto successo, cioè avrebbe avuto una certificazione di qualità PASSIVA. Questo è il successo. Io mi auguro di avere un successo attivo: intanto io faccio una bella opera, un gesto attivo, poi quella cosa lì ha avuto meno riscontro. Per il mondo, oggi, tutto questo si chiama fallimento.”
Lui da persona diventa personaggio e poi immagine. È più potente il personaggio o l’immagine?
T.S.: “In questa storia è l’immagine che però non viene mostrata, è immaginata, ma è anche l’immagine dei sogni che è un’immagine profonda. Chissà cosa sono i sogni: sono definibili come immagini? Alla fine sono esperienze illusorie, non sono fatti solo di immagini. Quindi, qui, lui cerca appunto di liberarsi dalla constatazione inquietante che è più potente l’immagine.”
Ma quindi che differenza c’è? Perché si può pensare che il personaggio sia più strutturato perché gli devi dare una vita, le sfaccettature. L’immagine invece, per quanto studiata, è più immediata anche se non è del tutto vero, perché il personaggio può essere più un “tipo”.
T.S.: “Si beh il personaggio è una semplificazione degli esseri umani perché lo intendiamo come una rappresentazione abbastanza coerente in sé, nei suoi elementi e nei suoi ingredienti. Penso che nessun essere umano sia un buon personaggio, perché a prenderla tutta, una persona, non è coerente. Il personaggio è come una torta: c’è lo zucchero, la farina, la panna, magari lo strano è la buccia d’arancia, non ci trovi le melanzane. Nella persona invece sì. Cosa intendiamo per immagine? Oggi spesso non è viva, è sempre più fatta dalle macchine. Un personaggio lo trovi dentro l’immagine, non è così semplice separarli, perché sono intrecciati insieme. In questa storia, effettivamente, c’è un personaggio che ha a che fare con le immagini, però io arrivo in scena e sono me stesso, poi racconto di un altro: è come se edificassi un personaggio che a sua volta ad un altro gli dà un nome inventato e poi questo si materializza perché esiste. È strano, come vedi, perché sono progressive nuvolette di idee che ne producono una che ne crea un’altra: una concatenazione di personaggi che cercano una loro consistenza e un prender corpo. È stato bello preparare questo spettacolo, oltre che farlo.”
Prossime date
Il 27 dicembre Teatro di Quaranthana a San Miniato
Dal 3 al 6 maggio al Tieffe Menotti di Milano