La settimana scorsa al Teatro Comunale di Vicenza è andato in scena il Macbeth di Shakespeare nella versione del regista Andrea De Rosa. Allestito rigorosamente in abiti moderni, questo Macbeth è uno degli spettacoli più discussi ultimamente perché è visivamente molto forte, truculento e granguignolesco. Certe scelte possono sembrare forzate ma, a parer mio, sono utili per portare lo spettatore in un’un atmosfera di orrore che è solo apparentemente filtrata dai canoni estetici televisivi dei talk show di approfondimento da seconda serata, ma che in realtà è ciò che caratterizza l’espressione del lato animalesco dell’uomo. Quella “animalità” che per fortuna viene tenuta saldamente sopita dal lato invece più umano e sociale. Macbeth è un personaggio realmente esistito e vissuto nel XI secolo e questa tragedia è stata resa effettivamente gotica, nonostante l’ambientazione odierna, proprio per l’atmosfera che De Rosa è riuscito a creare. Un allestimento coraggioso, forte, sicuramente disturbante ma che sebbene mostri senza filtri la spietatezza di queste persone-personaggi, riesce a specchiare in più piani i concetti e le riflessioni che può suscitare un’opera davvero immortale come questa.
La prima cosa che ho notato della sua interpretazione è l’atteggiamento dei personaggi: festa in casa, salotto borghese, sono tutti ubriachi e ridono fino allo sfinimento, sia quando le tre bambole-streghe fanno la profezia, sia quando viene raccontata la battaglia contro i norvegesi. Questo è un modo per mettere in evidenza i momenti drammatici oppure perché l’atmosfera è talmente sospesa tra orrore reale e assurdità che la risata continua è la soluzione più adatta ad alleggerire un po’ la follia che noi stessi viviamo da spettatori seguendo la cronaca?
Andrea De Rosa: “Sì, è esattamente questo il punto: ci siamo molto interrogati su quale sia la reazione più naturale e più forte rispetto alla situazione che ci spaventa e che non comprendiamo bene. Abbiamo discusso a lungo con Hubert Westkempert, l’ingegnere del suono che cura sempre il suono dei miei spettacoli e ci dicevamo che una delle cose strane del pubblico che guarda un film horror, in genere, oppure quando si ha una grande reazione di paura, per esempio quando si è sulle montagne russe, è quella di ridere moltissimo. Ragionando intorno a questo tema, poi, ci è venuta incontro Nadia Fusini, che ha tradotto il testo per me, e che ci diceva che c’è una parola inglese, uncanny, che è uno stato d’animo in cui si tende a ridere perché c’è qualcosa di inquietante che sta per arrivare e che è una situazione tipica dei film horror. Ci sono anche film come “Scary movie” in cui questa cosa viene letteralmente presa in giro. Diciamo che il ridere era uno dei temi che abbiamo cercato di analizzare in questo spettacolo, cioè qual è la reazione più forte che si ha di fronte a una cosa che non si conosce e che non si capisce bene o a una situazione assurda, come il fatto che improvvisamente appaiono delle streghe che ti fanno una profezia e che soprattutto ti insinuano un pensiero o un desiderio di una cosa che tutti vorremmo; uno dei desideri che per fortuna riusciamo a tenere nascosti e che se i improvvisamente vengono alla luce non riusciamo più a non pensarci.”
L’ambientazione è molto rassicurante: salotto borghese che è sia un po’ casa nostra ma è anche tutti questi salotti tv in cui si analizza, manca solo il plastico del castello di Inverness. Poi le bambole, che lui stringe a sé, diventano una materializzazione della vicenda e del suo cammino verso la distruzione. Anche Lady Macbeth le stringe quasi come se loro stessi fossero la profezia e le bambole fossero la parte fisica della profezia.
“La cosa del plastico è interessante perché ci ho pensato fino a un certo punto e mi sono detto: “quasi quasi mettiamo un plastico”. Un amico magistrato tempo fa mi disse che, statistiche alla mano, è più pericoloso percorrere il corridoio di casa di notte che non andare in giro nella stessa città di notte, nel senso che la quantità di delitti che avvengono tra le mura domestiche è enorme e ultimamente è aumentata. Ovviamente saremmo tutti pronti a scommettere che mai il nostro corridoio di casa potrebbe essere un pericolo, anche quando guardiamo i plastici delle case.”
Tra l’altro i personaggi, bene o male, sono tutti in qualche modo imparentati tra loro perché sono quasi tutti cugini.
“Esatto, questa è un’altra cosa molto importante. Soprattutto però, appunto, c’è questa cosa che noi cerchiamo di allontanare da noi quel male che si insinua e arriva anche nelle nostre case ed è profondamente inalienabile da noi: questo, secondo me, ci racconta il Macbeth di Shakespeare. Io mi sono sforzato di raccontare, soprattutto attraverso la festa iniziale, un Macbeth persona normale.”
Pulisce il sangue con il mocio.
“Sì, difatti leggendo il testo come se fosse la prima volta appare così Macbeth. Quando si affronta un personaggio o un testo che ha una storia così lunga e che hai visto e letto così tante volte, corri il rischio di attribuire al personaggio, prima ancora che tu lo legga, tutti i caratteri che già gli sono stati attribuiti col tempo e col passare delle interpretazioni e anche il fatto che sai già la storia come va a finire. Uno, spesso, quando vede Macbeth, fin dalla prima scena vede il genio del male, l’uomo corrotto che ha dentro di sé la sete di sangue come se fosse nel suo DNA, mentre non è affatto così: è veramente la tragedia di un uomo normale, nel mio caso un uomo quasi ridicolo, che si trova di fronte a un desiderio che era nascosto da qualche parte, come è nascosto dentro ciascuno di noi. Per fortuna nei nostri casi rimane ben nascosto, nel suo invece viene fuori causando una serie di reazioni a catena che lo portano fino alla morte.”
Il monologo di Lady Macbeth è una vera e propria invocazione rituale, e quando sono da soli lui e lei, parlano con queste voci filtrate a mezza via tra Gollum e Profondo Rosso o i film di Dario Argento in genere, e lei rimane con i 3 bambolotti sotto la maglia per buona parte della tragedia. Nel momento in cui lei sobilla lui, si sente il pianto di un bambino. Questi bambolotti –bambini –voci, li ho visti come il simbolo sia del male che dell’innocenza tradita e vituperata, del figlio di Banquo in pericolo, di chi è in pericolo ed è indifeso, ma anche del dolore. Perché ha scelto dei segni di innocenza per rappresentare il male? Sembra una mezza via tra un simbolismo da Apocalisse biblica e Rosemary’s baby.
“L’ho scelto e non sono il primo ad averlo fatto, perché i bambini sono uno dei soggetti prediletti dei film horror, fatto molto singolare, perché i bambini, tolta la retorica che ci spinge a dire che sono delle creature innocenti, e li sono senz’altro perché l’innocenza un aspetto dell’infanzia, sono anche molte altre cose, l’ho sperimentato avendo due figli che mi stanno di fronte tutti i giorni. I bambini, se uno li guarda e ci si rapporta quotidianamente, sono sicuramente innocenti ma nonostante i progressi della scienza pedagogica e psicologica, sono creature a tutt’oggi sostanzialmente misteriose. Io dico sempre che noi stessi siamo degli esseri profondamente diversi dai bambini che siamo stati: se io incontrassi il bambino che sono stato, non solo io non riconoscerei lui e lui non riconoscerebbe affatto me, ma avremmo di fronte un totale estraneo. La pedagogia, anche con molti conflitti all’interno delle stesse correnti pedagogiche e psicologiche, tende a rappresentare il bambino come quell’essere che poi diventerà l’adulto, ma in fondo c’è una frattura misteriosa, radicale e insanabile tra queste due persone, cioè tra il bambino e l’adulto, tra questi due noi stessi che ci rendono completamente degli estranei. Credo che questo sia il motivo per cui alla fine siano i soggetti prediletti per i film horror e io ho voluto raccontarli in questo modo per questo. Fin dalla nascita, questo è un altro elemento importante per il quale ho scelto di fare la scena di parti multipli, il bambino è l’estraneo che abbiamo detto: la nascita è veramente l’evento più misterioso e inquietante a cui si possa assistere, se uno si sforza di togliere la retorica della meraviglia, la meraviglia rimane sotto forma di terrore; il parto è un evento terribile e meraviglioso al tempo stesso. Come diceva Kant, non si capisce la meraviglia se non si prova il terrore.”
C’è quella scena buoio-luce: il pugnale lui lo vede al buio, e quando c’è luce sente piangere e si vede le mani insanguinate ma il coltello lo vede solo nel buio totale. Mi spiega questa scena, che tra l’altro ha suscitato molto interesse nel pubblico della prima sera a Vicenza perché è partito l’applauso quando si sono spente le luci.
“L’alternanza tra buio e luce mi è venuto dall’incipit della tragedia (che nel nostro caso non c’è perché ho tagliato delle scene), in cui le streghe si incontrano e dicono la famosa canzone,quella parte che va cantata: “fair is foul and foul is fair”, il bene è male e male è bene, ma che si può anche tradurre anche con “la luce è buio e il buio è luce” ed è un mantra che poi ripete anche Lady Macbeth quando rientra in scena. Tutta la tragedia di Macbeth è un’alternanza, un conflitto, una dialettica tra la luce e buio, lo scuro e il chiaro: quello è uno dei monologhi più difficili da mettere in scena perché in quel momento lui ha una visione di questo coltello, mi viene in mente il film di Roman Polanski…”
Dove il pugnale gli indica la stanza.
“Sì appunto. Leggendo il testo mi sono reso conto che ci sono delle frasi in cui lui lo vede e altre in cui non lo vede più e ho usato questo elemento del buio per sottolineare ancora di più il suo essere infantile, come capita spesso ai bambini, che al buio si immaginano cose che se si accende la luce non le si vedono più e si rispegne la luce anche per cercare quelle ombre che avevamo creduto di vedere. Nel suo caso invece le ombre esistono davvero e lo portano fino al delitto.”
Da sempre questi sono visti come personaggi spietati, freddi e calcolatori, eppure lei li fa bere in continuazione, sono sempre ubriachi: è un segno di debolezza oppure della leggerezza con cui vorrebbero compiere questi gesti ? Loro saranno anche determinati ma hanno spesso bisogno di agenti “esterni” per farsi forza: i giuramenti, le invocazioni, i ragionamenti sulle profezie e forse anche il whisky.
“L’elemento del bere non l’ho inventato, ho semplicemente calcato la mano ma è una cosa che è presente nel testo di Shakespeare e che viene sottovalutata. Ho trasferito questo elemento del bere fin dall’inizio, cosa che non sarebbe così perché, da testo, si comincia a bere quando arriva Duncan al castello di Macbeth. Da quel momento in poi si beve tantissimo, sono tutti ubriachi e lo dicono in continuazione tutti i personaggi: lo dice lady Macbeth, lo dice il guardiano che è così ubriaco che non riesce ad aprire il portone. Nel mio caso il guardiano non c’è e quelle parti lì sono dette da Lady Macbeth e Macbeth, però da testo c’è il guardiano che dice che fa tanta di quella pipì che non riesce ad aprire il portone e sono tutti così ubriachi perché è stata vinta la guerra contro i norvegesi e si festeggia.”
Effettivamente, a parte il guardiano che ci si immagina il vecchiettino scozzese che beve, a questa cosa del bere non ho mai dato una connotazione quasi di determinanza nella vicenda.
“C’è una battuta in cui Lady Macbeth dice che ciò che ha reso tutti ubriachi ha dato a lei forza, il ché vuol dire che lei stessa ha bevuto tantissimo, quindi io l’ho letta in quel modo però le battute suggerivano quell’atmosfera. Quello che mi stava a cuore è l’elemento dell’euforia dell’omicidio: c’è un libro molto bello da cui siamo partiti, di Thomas de Quincey, che si chiama “L’assassinio come una delle belle arti”, un capolavoro dell’800 e l’elemento ludico dell’assassinio e del compiere il male viene analizzato in modo divertentissimo in questo libro, che è meraviglioso ma inquietante perché c’è un aspetto ludico che non si può trascurare. Io ho l’impressione che senza questo elemento non si riesca a comprendere la follia che prende gli uomini: l’elemento ludico fortissimo di superare il limite consentito.”
C’è un altro monologo di Re Macbeth, che viene recitato tutto d’un fiato urlando, con una nota musicale unica sotto, stile Kubrick, c’è questo crescendo recitativo che rende il tutto quasi, azzarderei, un rap duro quasi rap-core, e anche il sicario che uccide Banquo ha un’aria molto “urban”. Mi sembra che lei divida l’ambientazione in due strati sociali: da una parte c’è la nobiltà col salotto buono che pulisce il sangue col mocio e dall’altra c’è la cultura underground, molto anglosassone, una sorta di neo punk tra il dark la cultura goth e appunto l’urban. Quali sono i film, o anche le serie tv, a cui si è ispirato per questo tipo di collocazione sociale? Io ho pensato un po’ ad Arancia Meccanica.
“ Arancia Meccanica è un ottimo riferimento e vale su tutti, però anche un certo teatro, che ho spesso negli occhi, il teatro che si vede soprattutto fuori dall’Italia, che cerca di raccontare anche attraverso la lettura dei grandi classici il mondo che ci sta intorno, soprattutto il teatro tedesco che secondo me in questo momento è molto avanti e ha intrapreso una strada molto coraggiosa. Non avrebbe senso raccontare il sicario: quel personaggio sarebbe solo una funzione se non avesse la possibilità di raccontare il mondo che ci sta attorno. Quando ci abbiamo lavorato era appena successo l’omicidio in Francia, il ragazzo che aveva ucciso diverse persone, abbiamo visto i video su internet e lo abbiamo vestito come lui ed è un ragazzo che se vedi i video non avresti MAI, proprio mai, detto che avrebbe potuto compiere quello che ha compiuto, quindi ho cercato di raccontare anche in quel caso gli uomini normali che sono attorno a noi.”
Nella scena del banchetto,dove lui ha la visione di Banquo, lei fa sedere re e regina a un tavolo bassissimo con due sedioline a misura di bambino. Voleva simboleggiare la piccolezza dei due che sono completamente sopraffatti dagli eventi che loro stessi hanno scatenato, oppure, è un ulteriore legame con questo concetto di mostruosità che si accende flebile e poi cresce a ritmo costante all’interno di questi personaggi?
“Sì, soprattutto volevo raccontare questo mondo che poi diventa un incubo e si deforma, perché insieme al tavolino e alle sedioline da bambini arriva poi anche quella culletta piccola piccola dove tutti e due vogliono entrare per dormire. Tutto diventa piccolino, è una tragedia che ha molto a che fare con tutto ciò ch è infantile e piccolino: loro fin dal primo momento cominciano un gioco che è infantile, ridicolo e stupido che non porterà da nessuna parte e si capisce fin dalla prima scena, sono due cialtroni e questo anche nel Macbeth di Shakespeare. Io ho calcato la mano su questo: Macbeth non è Jago, fa un piano che fa acqua da tutte le parti, è un sanguinario condottiero, così lo racconta Shakespeare, ma è completamente incapace di elaborare un piano strategico ben fatto, tant’è vero che una delle cose più assurde che capitano nel “Macbeth” è che nessuno dei due, né lui né la moglie, si pone il problema di cosa fare coi figli di Duncan. Se il piano fosse ben fatto, il passo successivo dovresti anticiparlo: tu vuoi diventare re ma l’erede al trono è il figlio di Duncan. Che facciamo coi figli di Duncan? Nessuno si pone mai questa domanda se non ché i figli di Duncan improvvisamente hanno paura e scappano e vanno avanti con la cosa che succede senza che loro l’abbiano né prevista né immaginata.”
Una delle tante sfaccettature interessantissime di questi personaggi è che sono nobili, altolocati, istruiti, dovrebbero essere superiori e avere anche nobiltà d’animo, invece Shakespeare li dipinge davvero come mostri e se vogliamo anche un po’ dei cretini perchè danno grandissimo credito a quello che dicono le streghe al punto che arrivano a supplicarle: “Voglio sapere di più”. Secondo me qui Shakespeare si fa finemente spietato perché la conoscenza porta alla distruzione. Poi lei mostra Lady Macbeth che partorisce feti morti che mi pare di capire rappresentino la profezia che saranno i discendenti di Banquo ad essere re e Macbeth non avrà più stirpe. Ci può essere anche un significato “politico” e ironico in questa visione del rapporto tra sovrannaturale, conoscenza e destino? Erano anche gli anni dell’inquisizione.
“Sì però tutto questo è ambientato in Scozia, che è una terra molto brutale. È una tragedia scozzese.”
Sì ma è anche vero che Shakespeare, molto spesso, nelle sue pièce mette dei riferimenti a dei fatti del suo tempo, per cui un’ironia nel senso che Macbeth, che è re cattolico perché ai tempi di Macbeth non c’era ancora stato lo scisma, dà credito al demonio: nessuno è immune. Per cui forse è anche una sorta di ironia, di satira politica nei confronti dell’Inquisizione.
“Forse sì, io non ci avevo pensato, però credo che tra le tragedie di Shakespeare sia veramente la più brutale e non è un caso che sia ambientata in Scozia perché gli intrighi di palazzo inglese Shakespeare li conosceva molto bene e aveva raccontato anche in altre tragedie, appunto: ha raccontato molto meglio la partita a scacchi del potere moderno, gli intrighi di potere di corte raccontati sono molto più vicini al mondo che non in questa tragedia che invece ha qualcosa di veramente molto più ancestrale e primitivo e che è la forza di questa tragedia, che riguarda i singoli individui più che l’apparato politico.”
Lei ha anche diretto teatro classico come Le Troiane di Euripide e l’ Elettra di Sofocle e ha fatto e fa molta regia d’opera. Una delle caratteristiche delle tragedie greche è che i protagonisti non sono dei semplici personaggi ma sono dei miti, sono miti anche quelli di Shakespeare e in alcuni casi anche quelli mozartiani. A livello strutturale quali sono i punti di contatto tra la tragedia shakespeariana, quindi moderna, e quella del teatro classico?
“Shakespeare rovescia completamente tutti i canoni della tragedia classica e, come diceva Harold Bloom, ha inventato l’uomo moderno: per esempio il rapporto fondamentale che Macbeth intrattiene con le profezie è completamente rovesciato rispetto a quello che Edipo ha con i suoi oracoli. Per il mondo classico, ma soprattutto per il mondo greco, l’oracolo è il mondo, e il mondo significa che il destino è il mondo e le due cose vanno esattamente di pari passo, mentre per Macbeth il destino non è il mondo, il mondo è il proprio desiderio e cedere al desiderio, il rapporto con se stessi prima ancora che con qualcosa che è al di fuori di sé. Diciamo che il misterioso del mondo nella Grecia è raccontato come l’ineluttabile quindi qualcosa che non ci appartiene e che sta al di fuori di noi, mentre in Shakespeare va sempre più dentro e si avvicina sempre più a noi fino ad essere nascosto dentro di noi.”
Parlando di oracoli mi sembra che ci sia una forte ironia, perché Tiresia non dice a Edipo chi è davvero, gli dice che è lui che non capisce, è il cieco che dice a chi diventerà cieco che non sa che il cieco è lui. Qui le streghe gli dicono che la foresta di Birnan camminerà, l’uomo non nato da donna; mi sembra che siano delle fuorvianze ironiche e sarcastiche un po’ come in Sofocle.
“Sì ma nel caso di Edipo è Tiresia che fa dell’ironia, mentre qua è l’oracolo stesso che fa dell’ironia, è il destino che si trasforma in una maschera sarcastica e buffa, mentre nella tragedia classica questo non avveniva, era qualcosa di stampato, di scolpito nel gran libro della natura e del mondo che non poteva essere infranto e il fatto che uno non sapesse leggerlo poteva essere oggetto di scherno. Qui invece il libro è già esso stesso una barzelletta.”
trailer dello spettacolo
tournèe
7 – 10 febbraio / Teatro Bonci – Cesena
12 febbraio – 3 marzo / Teatro Strehler – Milano
5 – 6 marzo / Teatro di Locarno – Locarno
7 marzo / Teatro Verdi -Lonigo
8 – 10 marzo / Teatro Toniolo – Mestre
12 – 13 marzo / Teatro Ponchielli – Cremona
14 – 17 marzo / Arena del Sole – Bologna
sito della produzione
http://www.teatrostabiletorino.it/
sito ufficiale di Andrea De Rosa