<strong>Strepitoso successo di pubblico al Teatro Olimpico di Vicenza per lo spettacolo HAMLICE portato in scena dalla  “Compagnia della Fortezza” del carcere di Volterra. Presentata per il “Laboratorio Olimpico”, la splendida pièce inaugura la stagione di prosa del Teatro Astra di Vicenza</strong>

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Teatro esaurito venerdì 28 ottobre 2011 all’Olimpico di Vicenza per una pièce sperimentale dove i detenuti-attori del carcere di Volterra hanno creato un’atmosfera magica e surreale grazie alla direzione del regista Armando Punzo. Frutto di un continuo work in progress, “Hamlice- Saggio sulla fine di una civiltà” è uno spettacolo che cambia in continuazione e che è stato riproposto in questa occasione come mise en espace-site specific per il Teatro Olimpico.

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Ricca di riferimenti ai grandi autori del teatro, da Genet a Čechov a Pinter, la pièce è un mix di storie raccontate attraverso le riflessioni scaturite dall’esperienza skakespeariana dell’ “Amleto” e dell “Alice nel paese delle meraviglie” di Carrol. Punzo sfrutta tutti i linguaggi artistici per far passare il messaggio delle parole libere, dalla pittura eseguita live, alla musica, alla parola scritta. L’allestimento, rispettosissimo del teatro, grazie alle idee del regista è risultato essere una delle più belle ed efficaci realizzazioni degli ultimi anni create apposta per questo luogo. Particolarissima l’illuminazione che ha letteralmente inondato la scena e la prospettiva sfruttando tutto lo spazio e creando un cielo stellato, grazie a due disco ball illuminate appositamente. Interessante anche la proiezione dei personaggi sulla scena che sono sembrati dei fantasmi intrappolati tra le statue, soluzione sicuramente più affascinante che non su un fondo convenzionale.

Curatissimi costumi e trucco, giocati tutti sul contrasto del bianco e del nero per poi lasciare spazio a pochi altri colori, come il rosso e il magenta.

Straordinari gli attori che si sono esibiti muovendosi in un gioco delle parti tra teatro e realtà, tra vita dentro e vita fuori, non solo dalle mura ma da se stessi e dagli altri, tra personaggi che raccontano ciò che è sconosciuto alla maggior parte della gente tramite degli stati d’animo umani e condivisibili, sfruttando ciò che è più riconoscibile: i dialetti, le figure popolari, la paura, le domande, l’angoscia, il tutto concertato da un gusto estetico grottesco reso finemente elegante e mai disturbante, grazie a una poeticità visiva che richiama molto Fellini.

Il pubblico accede alla sala con gli attori già in scena e attivi, come ad accogliere gli spettatori in  un’altra visione da condividere e da raccontare. Tutto sembra essere apparentemente scollegato e lo straniamento pare essere il filo conduttore: lo scrittore che scrive convulsamente in aria, il musicista che sembra suonare per se stesso, il pittore che si isola nella sua arte, eppure tutto ciò che vediamo e sentiamo si fonde per esprimere delle sensazioni di costrizione e di inquietudine. Anche l’ironia che in alcuni momenti fa sorridere il pubblico ha un sentore malinconico. Eppure è uno spettacolo che, pur essendo introspettivo verso i lati profondi dell’animo, ha una potenza visiva strabiliante perché sfrutta lo spazio, le azioni, i suoni, i colori e i non colori, le luci, sia quelle fisse che quelle stroboscopiche, ma anche il buio.

Non mancano le citazioni operistiche: il fantasma del padre di Amleto ricorda il convitato di pietra mozartiano, ma viene in mente anche Bob Fosse, quando verso il finale quel “it’s so nice to have you here tonight” non può che farci pensare a “willkommen bienvenue welcome”.

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Dopo tutto questa vita di dubbi, domande, fantasia, ricordi, ragionamenti e pensieri, rimangono i contrasti e le contraddizioni di tutti gli esseri umani:  il pittore dipinge la sua ultima immagine al di sopra della quale scrive: “non so più chi sono” ma la musica apre alla speranza con una marcia, le scritte proiettate sulla scena si cancellano con un lento rewind, rimangono le stelle, si accendono le luci e gli attori si appropriano di tutto l’Olimpico gettando in aria lettere di polistirolo invitando il pubblico a fare lo stesso. Una festa di una felicità malinconica, accompagnata da una battuta finale ripetuta: “ Non essere! Non essere! Addio! Addio!”

Armando Punzo non è un detenuto, è un regista che ha scelto di intraprendere questo progetto 23 anni fa e lo sta portando avanti con grandi successi e con eccellenti risultati. L’obiettivo è quello di riuscire a creare una compagnia di teatro stabile in carcere. La Compagnia della Fortezza di Volterra riesce a fare anche tournée in maniera incredibile per i tempi che corrono: circa 50 persone di staff  che poi vengono dislocate sia nelle carceri locali che negli alberghi ( alcuni sono ex detenuti). Si punta a fare tournée europee. Nel carcere di Volterra infatti non vengono insegnati solo i mestieri tradizionali ma anche, appunto, le maestranze teatrali e tecniche che sono essenziali per la buona riuscita di un qualsiasi spettacolo.

Tra le mille difficoltà di oggi e soprattutto per il momento che sta vivendo il teatro italiano, questa realtà è davvero un simbolo di speranza concreta, non solo per l’aspetto sociale ma soprattutto perché dimostra ciò che all’estero è stato capito da molto tempo: che la creatività è un patrimonio che va incentivato e che crea risorse.

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