Mario Gelardi è un regista teatrale, famoso ai più per aver firmato la trasposizione teatrale del libro di Roberto Saviano “Gomorra”. Quest’anno Gelardi ha aperto un nuovo teatro a Napoli, al quartiere Sanità, si chiama Nuovo Teatro Sanità e con grande spirito di sacrificio e di iniziativa ha messo in piedi una stagione fittissima di appuntamenti e di proposte. Uno dei progetti del ntS’ è “DO NOT DISTURB- il teatro si fa in albergo” esperimento drammaturgico che ha luogo in alcune stanze di albergo in cui il pubblico accede alla scena assistendo all’evento dall’interno . “Do not disturb” è andato in scena a gennaio al Chiaja Hotel de Charme e verrà replicato a maggio al Grand Hotel Parker in C.so Vittorio Emanuele 135 il 9 maggio alle 19 e alle 21, il 10 maggio sempre alle 19 e alle 21 e l’11 maggio alle 17, alle 19 e alle 21. Essendo il numero di posti limitatissimo è necessario prenotarsi al 3396666426. Tutte le info sul sito www.nuovoteatrosanita.it e organizzazione@nuovoteatrosanita.it
Ho incontrato Mario Gelardi per farmi spiegare questo suo nuovo format teatrale
Questa produzione sperimenta la messa in scena di un testo al di fuori della modalità usuale, un po’ come mi pare di capire succede con lo spettacolo “Dignità autonome di prostituzione” e con il monologo “Agoraphobia” di Lotte Van De Berg, che sfrutta luoghi pubblici, un teatro al di fuori dei luoghi preposti. L’idea si è evoluta da altre sperimentazioni che hai visto nell’ambito teatrale oppure dipende dal tipo di argomento che volevi trattare?
Mario Gelardi: “A differenza di altri spettacoli, come lo stesso Dignità, questo ha una particolarità: la camera d’albergo non è un contenitore. Il pubblico vede quei 20 minuti che sono un tempo reale di messa in scena: sono gli ultimi 20 minuti di una coppia prima di lasciare la stanza, in quell’albergo, in quel momento, è proprio un protagonista. Poi nasce da un’esigenza sempre più forte di uscire dai teatri, che stanno diventando luoghi troppo chiusi e troppo poco aperti alla gente non avvezza al teatro. Uscendo fuori riesci anche a intercettare un pubblico che è un po’ spaventato dal teatro come luogo un po’ troppo museale.”
In un’intervista hai parlato di teatro come contenitore del tempo reale. Lo spazio è molto vincolante in teatro, nel caso di “Do not disturb” lo è particolarmente. Pur creando delle eventuali elissi temporali, il tempo reale è appunto quello che trascorre realmente e che viene condiviso da attori e spettatori. Può essere più vincolante dello spazio?
“Sì, può esserlo e in questo caso è una sfida raccontare una storia in 20 minuti, una storia che poi avesse un po’ un finale a sorpresa, un po’ a chiave, ti ricordi i brevi telefilm di Hitchcock? È un po’ così: sono 20 minuti in cui non sai bene cosa sta accadendo, entri lì, spii e poi alla fine hai una rivelazione. Quindi, sì, è vincolante però è anche una sfida narrativa e drammaturgica fortissima.”
Lo spettacolo sfrutta la forma dello short theatre con il finale che ha luogo nel bar dell’albergo dove c’è un altro attore che interpreta “La voce umana” di Cocteau. Tradizionalmente la protagonista è una donna che per mezzo del testo rivela una fragilità data quasi da una dipendenza ossessiva, o quantomeno nevrotica, dal suo -ormai- ex amante. Qui come hai immaginato questa relazione, che nel momento in cui viene descritta è diventata a senso unico? In cosa differisce l’uomo dalla donna nel vivere i sentimenti e le ansie presenti in quel testo?
“È stato facile perché probabilmente Cocteau non lo ha scritto per una donna ma per un uomo, quindi il passaggio è stato abbastanza immediato; nel testo ho trovato tutte le possibilità di questo cambiamento. Se ascolti non appare come una forzatura. Mi sono permesso di farlo proprio perché nella storia di Cocteau c’è una lunga storia d’amore con Jean Marais e quasi ho cercato di raccontare quello più che il personaggio femminile. I sentimenti sono sentimenti, la natura genetica di chi li esprime mi interessa pochissimo.”
Sono previsti anche altri testi?
“Sì, già in questa edizione ce n’è uno nuovo scritto da Claudio Finelli, in prospettiva c’è un interessamento di Benevento Città Spettacolo e addirittura scriveremo 9 stanze. La mia idea è anche quella di riprendere, come ho fatto con Cocteau, dei pezzi di teatro ambientati in albergo come “La dolce ala della giovinezza” di Tennessee Williams. L’idea, ogni volta che lo riproponiamo, è di cambiare almeno una stanza. Parlo pochissimo delle stanze perché essendoci un finale a sorpresa, tendo a non raccontarlo.”
L’albergo come luogo particolarmente adatto a liberare determinati lati dell’animo umano. In questi giorni al cinema c’è “Gran Budapest Hotel” di Wes Anderson, ma il filone ha origini che ormai possiamo tranquillamente definire “antiche”: si parte dagli anni ’30 con il film “Grand Hotel” con Greta Garbo, i Barrymore, Joan Crawford, presentato alla prima Mostra del Cinema di Venezia nel ’32 e Oscar come miglior film nello stesso anno, citatissimo ancora oggi con una line, “Grand Hotel, gente che va, gente che viene”, che potrebbe essere davvero uno slogan pubblicitario. Perché l’hotel ha questo appeal per i registi e gli sceneggiatori?
“Per quel che mi riguarda tu, in una stanza (che poi è la camera da letto), devi racchiudere tutto il tuo mondo sia personale che esterno in un luogo così chiuso, diventa la tua cucina, il luogo delle chiacchiere, il salotto, la tua camera da letto. È interessante, pensa a come è fatto il teatro: tu rinchiudi in uno spazio un mondo immaginario che di volta in volta puoi cambiare. Poi l’idea di queste stanze chiuse…”
Il pubblico è all’interno della quarta parete.
“Eh, esatto. Infatti noi usiamo propri questa idea di aprire questa porta all’improvviso, entri a spiare, gli attori non hanno la percezione della presenza del pubblico, che ci ha detto che si sente in più, a disagio rispetto a questa storia che avviene nonostante loro.”
Questo è il feedback che volevi?
“Sì, assolutamente.”
La fascinazione parte dall’hotel ideale e idealizzato dal cinema oppure l’idea è quella della performance site specific in cui la scrittura si adattata al luogo oppure, ancora, è la scrittura e la regia che permettono al pubblico di vivere il luogo in modo completamente nuovo grazie all’evento?
“È chiaro che io spero in questa terza possibilità. Anche nel caso dell’Hotel Parker in cui saremo a maggio, cerchiamo di inserire nelle nostre storie la peculiarità, ogni albergo ha una sua storia: la prima volta che l’abbiamo fatto all’Hotel de Charme, era l’ex bordello di Napoli e lì, ad esempio, abbiamo ricreato un’atmosfera sottilmente erotica, mentre il Parker ha una terrazza sul golfo di Napoli, presenta questo sole che invade la stanza. L’idea (che poi viene anche da altre esperienze che ho fatto col mio gruppo negli ultimi anni) di adattare lo spettacolo al luogo che non diventa solo un contenitore mi interessa molto: che lo spettacolo sia una materia viva che si adatta come se fosse acqua al contenitore che lo ospita mi sembrano tutte piccole sfide che rendono il lavoro più vivo, in continuo cambiamento ed evoluzione.”
Questo spettacolo parla di rapporti umani declinati all’interno della sfera dell’erotismo, sia nell’ambito della coppia in atto che in quello del distacco, come avviene ne “La voce umana” in cui la fine del rapporto sembra negare un po’ l’equilibrio e l’identità del personaggio ma anche della persona.
“Sì, l’erotismo è un po’ la traccia che unisce tutte le stanze. Tutte le coppie, in realtà, hanno un’impossibilità di vivere un rapporto che hanno risolto velocemente con l’atto sessuale e che non riescono a far crescere con la parola.”
Quindi l’atto sessuale allontana?
“In questo caso non crea un rapporto sociale, non crea intimità: è più facile che la coppia clandestina si ritrovi sull’atto sessuale piuttosto che un dialogo su qualsiasi argomento.”
Nuove forme di teatro: l’esplorazione del web come strumento per creare personaggi e situazioni che derivano da forme di teatralizzazione come la politica o la moda, penso al lavoro di Daniele Timpano sul web con “Aldo Morto 54” o al personaggio di Drusilla Foer. È vero che il teatro è riunione di persone ma è anche vero che comunque si parte da un testo, che sia letteratura o testo per immagini e montaggio, come possono essere gli spettacoli di Antonio Rezza per esempio, e la fruizione di un testo può essere anche differita o fruita tramite un’assemblea virtuale. Il Lavoro di Daniele Timpano secondo me solleva questo problema, a livello teorico: noi siamo in web e vediamo quello che fa lui nella cella e commentiamo con le chat.
“Il teatro secondo me deve conservare la sua peculiarità che è il rapporto diretto che non ha nessun altro media. Io li chiudo dentro la camera d’albergo perché devono sentire gli umori, i respiri, lo sciacquone del bagno, il fruscio dei vestiti. Non voglio un’ulteriore barriera, anzi sto cercando di togliere sempre di più. La mediazione del virtuale per ora non mi interessa.”
Ti se fatto un’idea di quali potrebbero essere gli sbocchi di questo utilizzo?
“Io credo che il teatro sempre di più uscirà dai luoghi canonici. Faccio sempre il paragone con le videocassette: la gente pensa che il cinema doveva essere quello solo in sala. Non cambia il racconto, cambia il media. Il teatro è tale e rimarrà tale e vorrei che avesse un’evoluzione.”
Sicuramente avrai visto che negli ultimi tempi va molto di moda il teatro al cinema, con attori stupendi e allestimenti fantastici. Però per come siamo abituati noi oggi, a quel punto, preferisco il teatro in televisione perché per il tipo di linguaggio e di fruizione è troppo lento.
“Capisco perfettamente, è quello che ti dicevo prima: la mancanza di contatto diretto snatura in qualche modo la forma primaria del teatro, però credo che nella ricerca dei nuovi media, nella commistione, magari la riformulazione di un tipo di teatro che sia trasversale rispetto agli altri media… pensiamo agli anni ’80 con l’arrivo dei video in scena, ora quasi nessuno li utilizza oppure si utilizzano più come video arte che come immagini di racconto. Il bello del teatro è anche questa continua evoluzione. Secondo me sono tutti tentativi apprezzabili, poi la forma va cercata, misurata e studiata insieme alle persone che ne fruiscono. Quando mi chiesero di fare la versione televisiva di “Gomorra”, lo spettacolo, parlai lungamente con la regista che si occupava della versione televisiva perché avevo paura un po’ di questo, una telecamera che riprendesse lo spettacolo, ché cambiando media non funziona più, tant’è che “Gomorra” si è deciso di farlo quasi tutto con macchina a spalla per dare un senso di dinamicità. Ha rappresentato l’Italia al Festival della Televisione di Torino, ha girato mezzo mondo quell’edizione televisiva perché aveva una peculiarità che era oltre il teatro: la televisione aveva aggiunto qualcosa in più e non si era messa come schermo-contenitore. Penso che se si studiano nuove forme in cui i vari media interagiscono tra loro e nessuno è passivo rispetto al’altro, si può trovare un modo per raccontare il teatro anche attraverso il cinema e la televisione, che sia positivo, nuovo, qualcosa in più.”
Col Nuovo Teatro Sanità vi occupate molto di teatro civile, questo spettacolo in qualche modo rientra in quel tipo di scelta editoriale?
“No. Non a caso non lo faccio al ntS’. Io parlo di teatro sociale più che di teatro civile: noi abbiamo un teatro in un quartiere complicato e difficile come ormai è complicata tutta questa città, però io penso che il rischio sia sempre che i teatri diventino dei musei, che non vivano il luogo in cui stanno. Noi abbiamo le porte aperte sul quartiere e su quello che accade nel paese mentre con “Do not disturb” volevo esplorare i rapporti umani a prescindere da qualsiasi rapporto sociale o politico, ho voluto proprio fare un esperimento diverso.”
Tu dici che il rischio che rimanga legato a un concetto museale è reale anche per un problema di critica autoreferenziale? Ci leggiamo tra di noi, a volte nemmeno gli uffici stampa, è difficile che una persona legga la critica a meno ché non sia un vero appassionato o un addetto ai lavori.
“Io racconto sempre una cosa, noi che ci occupiamo di teatro siamo portati a leggere il giornale al contrario: lo voltiamo e andiamo subito alle pagine della cultura. La media della gente si ferma allo sport, non a caso la cultura sta dopo lo sport e non prima. Quelle pagine che vengono dopo, alla maggior parte delle persone non interessano. Il parlarci tra di noi non è un rischio, è una realtà. Esiste un pubblico che va a teatro, almeno in questa città, che è fatto da “X” persone, purtroppo finché noi ci chiudiamo dentro e raccontiamo il teatro tra di noi, lo andiamo a vedere tra di noi e ce lo spieghiamo tra di noi, parliamo al critico e non al pubblico (che non vuol dire scendere a compromessi, sia chiaro) il rischio è che quell’ “X” pubblico rimanga tale, non aumenti mai. Per questo io sto cercando di andare in altri luoghi come le chiese, gli oratori, gli alberghi, per cercare di intercettare un pubblico che non ci va a teatro. A volte dicono che così togliamo pubblico al teatro: non è vero, quello è un pubblico che non ci va, anzi, magari ti vede in quell’ambito e gli viene voglia di venire a vederti in teatro.”
Avete un cartellone molto lungo, cominciate addirittura da settembre e finite a maggio, tra spettacoli, produzioni vostre e residenze: avete dei progetti di circuitazione nei festival e di tournée? Come riuscite a finanziare il progetto di un teatro nuovissimo in un periodo come questo?
“Il numero di spettacoli è dovuto al fatto che essendo un teatro nuovo che apre adesso io avevo la necessità di farlo conoscere e di fidelizzare il pubblico, quindi avevo bisogno che stesse sempre aperto. Per questo un numero così alto di spettacoli, 25, che per noi è stata una fatica immane e siamo stanchissimi, l’anno prossimo saranno la metà. Io ho cercato di riportare un’idea ( ho avuto, per fortuna, molte esperienze in Germania e Europa dell’Est con i miei spettacoli e con i miei testi) molto extra italiana, anche l’esigenza che avevo io di fare teatro: le giovani compagnie under 35, almeno una volta a settimana dove provare, perché se chiedi a qualsiasi giovane compagnia qual è il loro problema è sempre quello, dove provare. Cerchiamo di aiutarli almeno in quella che è una vocazione che secondo me dovrebbe avere il teatro pubblico, non un teatro come il mio. L’idea di riscoprire artisti della mia generazione che avevano difficoltà ad andare in scena, favorire un teatro al femminile: abbiamo tantissime primedonne in questo teatro e tantissima drammaturgia contemporanea, tutte cose che mi sono care e che sono doverose per un teatro che apre adesso e che debba guardare avanti. Io penso che da questo piccolo quartiere dobbiamo creare un teatro che guardi all’Europa, se ci riusciamo non lo so perché il problema è che ci autofinanziamo con l’incasso, che dovrebbe essere la norma per tutti i teatri ma è impossibile perché i costi burocratici del fare teatro sono altissimi e sono fuori mercato rispetto a quello che un teatro può guadagnare. Questa è una questione politica e sociale di cui si parla tanto: del teatro non gliene frega niente a nessuno, gliene frega a qualcuno solo quando diventa un luogo di potere, quelle dei teatri stabili –è inutile negarlo- sono nomine politiche ma sennò, per il resto, non gliene frega veramente niente a nessuno, siamo talmente pochi che nemmeno elettoralmente rappresentiamo una fascia importante e interessante. Quindi, qual è la mia paura: che noi potremo andare avanti fino a un certo punto, poi le risorse…”
Cioè tu dici: lavoriamo a regime di start-up, una volta finiti i soldi, come tutte le start up, o ti inventi veramente qualcosa oppure …
“Sì, oppure non riesci a fare il passo in più che vuoi fare: per 3-4 anni si può procedere con questo regime molto spartano poi ovviamente si vuole fare il passo in più. Io spero di rintracciare bandi, intrecciare rapporti con altri teatri. Per ora i giri che facciamo noi li facciamo essenzialmente col teatro ragazzi, poi io ho l’attività di regista e di autore che per fortuna continua ma con la preoccupazione di quanto si possa andare avanti così.”
Avete un modello di business, a parte questo, a cui magari state lavorando in qualche modo? Tu mi parlavi anche di esperienze all’estero.
“Sì, è un tentativo che è già stato fatto a Napoli ma non ha avuto molto successo: l’idea di avere una compagnia stabile, dei drammaturghi che scrivono per noi, una palestra di giovani attori che formiamo e che girano con noi, cose da teatro stabile.”
Ma voi avete un teatro stabile a Napoli.
“Sì, il Mercadante, e non fa nessuna di queste cose: non esiste a Napoli un’accademia riconosciuta dal Ministero, che se ci pensi è incredibile che un teatro stabile non abbia un’accademia.”